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XXXVIII.

Quanto dirne si dee, non si può dire;
Chè troppo agli orbi il suo splendor s’accese:
Biasmar si può più ’l popol che l’ offese,
Ch ’al minor pregio suo lingua salire.

Questi discese ai regni del fallire,
Per noi insegnare, e poscia a Dio n’ascese;
E l’ alte porte il ciel nongli contese,
Cui la patria le sue negò d’aprire.

Ingrata patria, e della sua fortuna
A suo danno nutrice! e n’è ben segno
Ch’ai più perfetti abbonda di più guai.

E fra mile ragion vaglia quest’una:
Ch’egual non ebbe il suo esilio indegno,
Com’uom maggior di lui qui non fu mai.